In occasione della decima edizione di Elba Book Festival, svoltasi dal 16 al 19 luglio 2024 in Rio nell’Elba, abbiamo avuto modo di dialogare con l’ospite d’eccezione Carlo Lucarelli. Giallista, giornalista, conduttore televisivo e radiofonico, autore di più di 20 romanzi thriller e noir, Lucarelli non necessita di presentazione. Come molti dei suoi personaggi, alcuni dei quali presto divenuti protagonisti di famose serie televisive e trasposizioni cinematografiche: ricordiamo l’ispettore Coliandro, celeberrimo protagonista dell’omonima serie tv, il commissario De Luca, anch’esso protagonista di un fortunato telefilm, e l’ispettrice Grazia Negro, al centro del romanzo “Almost blue” trasposto per il grande schermo da Alex Infascelli.
Colonialismo in Africa, regime fascista, anni di piombo e trattativa Stato-mafia sono tra le ambientazioni storiche più frequenti della sua narrativa. Nel suo ultimo romanzo, “Bell’abissina” (Mondadori, Milano, 2022), lo scrittore torna agli esordi con il commissario Marino, agente al servizio del regime mussoliniano ma segretamente e attivamente antifascista. Un vero e proprio noir storico ad altissima intensità, un pastiche di generi narrativi che passa dall’inchiesta poliziesca, al thriller e al romanzo sociale.
Di Carlo Lucarelli colpiscono subito l’apparente calma, il fare quieto, ma soprattutto l’assoluta disponibilità e generosità. Inesauribile la sua curiosità intellettuale, che lo spinge ad approfondire qualsiasi spunto di riflessione, come grandissima l’umiltà nel rispondere in modo preciso e dettagliato a ogni domanda che gli è stata posta. Un narratore vero, anche nella conversazione.
Di seguito la nostra intervista al grande maestro del noir mediterraneo, in cui si parlerà di letteratura, racconto del male, misteri italiani. Di luci e ombre della storia e dell’animo umano.
Giallo o blu? Qual è dunque il colore del crimine? Ricollegandoci al titolo dell’intervista, nella Sua opera ritorna sovente il colore blu. Valgano ad esempio alcuni semplici titoli quali “Almost Blue”, “Mistero in blu” e “Blu notte”. In “Almost blue” [Einaudi, Torino, 1997], poi, il personaggio di Simone Martini dice: «Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L’azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l’idea che contengono. Per il rumore dell’idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi. Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.». Ci spiega il significato che ha per Lei e nei Suoi libri questo colore?
Devo dire che il blu è entrato quasi per caso nella mia opera, proprio nel romanzo “Almost blue” che avete citato, con l’obiettivo di proiettare la storia che mi accingevo a raccontare all’interno di una dimensione leggermente blues, malinconica; solo successivamente il colore in questione ha acquisito un significato specifico. I colori tradizionalmente associati alle storie che noi autori dell’inquietudine scriviamo sono, convenzionalmente, il rosso (che è il colore del sangue e dell’omicidio e dunque il simbolo della parte più emotiva del genere), poi il giallo (colore del mistero e simbolo della parte più razionale della storia e dunque dei meccanismi di indagine e risoluzione del mistero) e infine il nero (il noir, appunto, che è il colore correlato all’aspetto più cupo del racconto di fatti delittuosi). A me piace però che nelle mie storie ci sia anche una sfumatura più triste, una vena più intima, un’atmosfera più intimistica. E questa atmosfera io l’associo al colore blu. Al momento poi del mio impegno con la Rai per la realizzazione di una trasmissione sui grandi misteri italiani e sui casi di cronaca nera irrisolti più eclatanti, la decisione di intitolarla “Mistero in blu” scaturì dalla necessità di risolvere, o almeno ridurre, il generale senso di piattezza cromatica della scenografia dovuta alla particolare condizione luministica presente nello studio di registrazione. Tale piattezza era dovuta all’omogeneità tra lo sfondo nero dell’ambiente e la mia abitudine di vestire sempre in nero, ma la proiezione di un faro di colore blu alle mie spalle conferì alle riprese la tipica atmosfera per cui il programma finì per distinguersi. Così, per caso, il blu è entrato a far parte dei miei libri e della mia opera. E poi anche della mia vita.
Il pubblico La conosce in larga parte per il Suo lavoro televisivo. Trasmissioni come “Mistero in blu” poi divenuto “Blu notte” raggiungono alti livelli di share. Perché la cronaca nera e i misteri irrisolti attirano un così ampio pubblico?
Il motivo principale è che ci fanno paura. E la paura è un sentimento fortissimo che non può lasciarci indifferenti. Se reagiamo bene, essa diventa uno strumento di conoscenza. Se reagiamo male, e ci chiudiamo, allora diventa qualcosa di negativo. Il primo effetto è guardare alla fonte della paura, come avviene nei film, in cui l’attenzione del personaggio va sempre nella direzione dell’evento improvviso e inaspettato, anche se impercettibile. Tutto quello che ci spaventa ci attrae, non possiamo ignorarlo perché ci riguarda da vicino e potrebbe capitare anche a noi. Tuttavia chi ce lo racconta segue criteri e canoni che permettono il distacco, come nei programmi di cronaca nera e true-crime, nei libri e nei film, e questo fa sì che la paura risulti del tutto gestibile e dunque fruibile agevolmente.
C’è poi una differenza da non trascurare tra paura ‘attivante’ e paura ‘inibente’: entrambe producono un effetto di condizionamento della nostra capacità di reagire, ma se la prima ci spinge a un atteggiamento costruttivo, ed è dunque positiva, la seconda si riduce a un’attitudine morbosa. Se ad esempio ci troviamo in autostrada e ci accade di imbatterci in un incidente, è legittimo e umano lanciare un’occhiata per capire se sia successo qualcosa di grave: se la curiosità ci spinge a far rivedere i freni per evitare lo stesso incidente allora è una reazione funzionale, se invece è fine a se stessa e per guardare si rischia di schiantarsi a propria volta, allora è sbagliata.
La narrazione del male è un tema complesso e di difficile approccio: Lei propende per una lettura dicotomica del rapporto tra bene e male o nella Sua opera a prevalere sono le zone d’ombra e le ambiguità, siano dei personaggi o dei fatti? Ad esempio, molti dei suoi personaggi sono individui ambigui e irrisolti: De Luca è un commissario che crede fermamente nel proprio lavoro ma poi scappa dinnanzi al pericolo per paura di morire; l’ispettore Coliandro è un onesto poliziotto pieno tuttavia di difetti e limiti, Lei lo definisce «un tipo onesto, ma abbastanza pasticcione, un personaggio ironico, tutto sommato». Bene e male sono dunque polarità nettamente distinte o si creano commistioni tra l’una e l’altra?
Il fulcro è per me sempre l’ambiguità. Nel romanzo giallo delle origini la dicotomia bene-male era netta: da una parte l’assassino (il male), dall’altra il detective (il bene), ovvero da un lato la persona che cerca e dall’altro la persona che nasconde, e in mezzo il morto. È chiaro che il buono è quello che deve risolvere il caso, mentre il cattivo è chi ha ucciso.
A me invece ha sempre interessato la dimensione dell’ambiguità. Ho iniziato a scrivere romanzi gialli, e continuo a farlo, con quelli che tecnicamente sono detti “detective istituzionali”, cioè i poliziotti. Non il giornalista che indaga, non Miss Murple, né la scrittrice di gialli. Mi interessa il poliziotto proprio per il potenziale di ambiguità che questa figura sprigiona. L’investigatore nel romanzo giallo è il portatore della verità, quindi virtualmente dovrebbe essere un personaggio del tutto positivo. Se però è calato in un contesto ambiguo, quale quello fascista, caratterizzato da una forte influenza della polizia politica, ecco che allora diventa il portatore legale della violenza dello Stato: se da un lato il lettore parteggia per lui perché scioglierà il mistero, dall’altro avverte un certo distacco perché non approva appieno quello che fa, o quello che è stato. Così è per Coliandro: un personaggio talmente pieno di difetti che non si vorrebbe essere lui.
A me piace l’ambiguità. Certo, il bene e il male mi interessano, ma nelle loro intersezioni, nella zona grigia in cui si rendono manifeste tutte le contraddizioni. Anche perché nella realtà è difficile discernere in modo netto il bianco dal nero. Raymond Chandler, creatore dell’hard-boiled e di Philip Marlowe, diceva che sul criminale deve vincere chi criminale non è, il cavaliere senza macchia e senza paura. Il suo Philip Marlowe è così: è problematico, beve, fa confusione, però ha una assoluta dirittura morale. Poi arrivarono i giallisti, come James Ellroy e Giorgio Scerbanenco, che eliminarono il pregiudizio morale: su un criminale può avere la meglio anche un altro criminale, e ciò rende la narrazione ancora più interessante in quanto personaggi e vicende diventano ambigui e creano nel lettore uno spiazzamento: a chi essere fedele? al poliziotto David Klein di “White jazz” che sta risolvendo il caso ma è un corrotto killer della mafia, pur essendo un tenente della polizia, o al criminale?