L’altro giorno, barricato in casa, mentre ero impegnato nelle faccende quotidiane — con quattro bambini il da fare non manca davvero — ho dato il via, su Youtube, ad una riproduzione casuale di canzoni italiane.
Non sapevo, e non volevo sapere, dove sarei andato a parare. Ascoltavo quasi disinteressato (i bambini non ti assorbono, ti spolpano) ma, dopo un po’, quando è partito l’attacco “Mi dispiace di svegliarti/forse un uomo non sarò/ma d’un tratto so che devo lasciarti/fra un minuto me ne andrò…” ho sussultato.
A volte, quando si ascolta una canzone, capita di ricollegarla, che so, ad una persona, ad un posto, oppure ad uno spaccato di vita trascorsa. In questo caso il tutto è racchiuso in un nome solo.
Sigarino.
Soltanto a pronunciarlo quel nome, Sigarino, un brivido caldo mi attraversa lungo la schiena. Mi scorre davanti agli occhi un pezzo di film della mia vita, il più bello forse, quello dell’adolescenza, ed i ricordi fioccano a dozzine. Di commemorare Sigarino in modo canonico, l’idea non mi ha nemmeno sfiorato: suvvia, approverebbe?
E allora, mi sono detto, se proprio lo voglio ricordare, lo devo fare così, a briglia sciolta, e se ci scappa una risata è anche meglio. E poi, con i tempi che corrono, di ridere mi sa che ce n’è davvero bisogno.
Distogliere dunque l’attenzione, per qualche minuto di lettura, magari col sorriso, da quelli che sono i reali e drammatici problemi del momento… direi che forse sì, Sigarino approverebbe.
Sigarino era il bar delle Ghiaie, fortissimo e forse irripetibile centro di aggregazione giovanile. Sigarino erano le “moie” (ormai prescritte), le burle, gli scherzi e le interminabili partite a carte. Sigarino erano i frequenti rimbrotti del gestore del bar, burbero all’apparenza ma in realtà buono come il pane e generoso a dismisura, e lo vedremo dopo, come pochi. Sigarino era il tifo per, o contro se del caso, la Juve, alla tv e non solo. Sigarino erano le trasferte allo stadio di Torino, al Comunale prima e al Delle Alpi (maestoso incommensurabile troiaio) poi.
E qui, sulla Juve, è d’obbligo soffermarsi. E dove sennò?
Una passione più viscerale di questa è difficile da riscontrare. Sigarino (Silvestro Franco Bonelli all’anagrafe) è uno di quei personaggi su cui si potrebbe tranquillamente scrivere un libro. Basterebbe soltanto riordinare e rendere fruibile la marea di aneddoti ed episodi che lo vedono protagonista ed il gioco sarebbe fatto, sul serio.
Tutto questo materiale, per la stragrande maggioranza, avrebbe lo stesso minimo comun denominatore: la Juve, appunto.
Sigarino era un decano del tifo bianconero, la sua squadra del cuore la seguiva in ogni dove. Non solo a Torino, ma un po’ in tutta Italia ed anche all’estero, ci mancherebbe.
Londra, Madrid, Barcellona, Bruxelles, Atene, Belgrado, Parigi (leggendaria fu una capatina ad Euro Disney insieme al Chioccino), addirittura Tokyo nel ’96. Quelle che io, quasi tutte insieme a lui, considero un discreto numero di trasferte, per lui sono un’esiguità. Sigarino c’era sempre e dovunque, non mancava mai.
Gliene va dato atto, allo stadio ne ha svezzati parecchi, anche perché con lui eri in una botte di ferro, i biglietti li trovava sempre. Per quello che mi riguarda: noi giovani spavaldi e baldanzosi a Torino andavamo in curva, lui nei distinti o in tribuna. Poi ci si ritrovava fuori dello stadio dagli ambulanti; panino, analisi sommaria della partita e via verso casa.
Sempre che non ci fosse un pullman organizzato, guidava sempre lui. Noi leoni in curva, dopo un paio d’ore agnellini in macchina: ci cappottavamo quasi subito tutti. Ci fosse mai stato qualcuno che gli avesse dato il cambio alla guida, o tenuto compagnia a chiacchiera. Mai.
Tanto Sigarino era una garanzia, alla guida della sua Golf verde scuro macinava chilometri su chilometri, e noi ci svegliavamo sul porto di Piombino, spesso e volentieri apostrofati alla sua maniera.
Tranne quella volta.
Primo episodio, inverno 1990.
Quella volta ci svegliammo, quasi di soprassalto, al casello autostradale di Livorno (quello di Rosignano ancora non c’era) perché lui aveva imbastito una litigata col casellante. C’era uno sciopero e, non so per quale motivo, all’imbocco in autostrada a Torino era impossibile ritirare il biglietto perciò, all’uscita, il conducente dell’auto doveva semplicemente confessare il casello di ingresso.
Il casellante si sarebbe poi adeguato, sulla fiducia.
Sigarino, forse annoiato dall’ennesimo viaggio in notturna con una marmaglia russante e un filino scureggiante, decise di movimentare la situazione, alle 4 di mattina, prendendo per il culo il casellante. Alla domanda dello sventurato: «Lei dov’è che è entrato?» lui senza battere ciglio sibilò: «Cerboli».
La tecnologia era agli albori ed il casellante cercò Cerboli sul librettino (una specie di prontuario), per calcolare poi l’importo da pagare.
Cerca, cerca, cerca, ma niente da fare, Cerboli non c’era.
E ti credo.
Ma Sigarino rimaneva impassibile e, da attore consumato, perse addirittura le staffe, scagliando le sue inconfondibili urla stridulanti contro il povero casellante: «Allora sei duro! Cerboli t’ho detto!»
Il casellante, che le staffe le stava perdendo anche lui (e non per sceneggiata), replicò con il briciolo di educazione rimastagli: «Signore, mi dia almeno qualche indizio: quanto è lontano? In che Regione è?»
«So ‘na sega dov’è! C’era un nebbione ‘un si vedeva nulla, sarà a due o tre ore da qui».
Come ragionamento non faceva una piega.
Al che il meno cappottato in macchina, da dietro, con la bocca impastata gli fece: «Franco (che io sappia Silvestro non ce lo chiamava nessuno) ‘o lascialo perde e levamoci di ‘ulo». Il casellante si guardò bene dall’inasprirsi ulteriormente, con un lampo di genio tipico dei livornesi colse la palla al balzo e risolse — a suo favore, questo è poco ma sicuro — la questione: «vabbè, facciamo che siete entrati a Pisa va’…» così con pochi spiccioli togliemmo il disturbo.
Secondo episodio.
Aprile del 1995, verso pasqua.
La Juve non vinceva lo scudetto da quasi dieci anni, una vita. In quei due lustri, Coppa Uefa del 1990 a parte (vinta in finale contro l’acerrima rivale viola), Sigarino aveva ingozzato di tutto, con l’aggiunta che le squadre di seguito elencate non si limitavano affatto a vincere lo scudetto, già che c’erano facevano incetta di sfavillanti coppe europee: il Milan degli olandesi e degli invincibili, il Napoli di Maradona, L’Inter dei record e persino la Sampdoria di Vialli e Mancini.
E Sigarino, bersaglio naturale (e pregiato) di sfottò dell’élite del tifo avversario, ci soffriva come un cane. Quella domenica primaverile si disputava Milan — Juve a San Siro, ed una vittoria della Juve, già in testa alla classifica, avrebbe sancito, quasi di fatto, la vittoria dello scudetto dopo un digiuno così lungo. Sigarino guardava la partita, come sempre in piedi, a casa sua, in salotto, con la famiglia ed alcuni amici.
La Juve stava vincendo uno a zero, quand’ecco che nel secondo tempo il centravanti raddoppiò. Sigarino, com’era scontato che fosse, la prese benissimo, soltanto che liberò dieci anni di patimenti in maniera, diciamo così, non esattamente soft, british. Si diresse verso un angolo della sala, dove faceva bella mostra di sé un gigantesco uovo di cioccolata, alto circa un metro, destinato di lì a qualche giorno ad alcune nipotine, e gli sferrò un calcio.
Calciò da fermo, senza rincorsa, però secco, deciso. Un “punterolo” assestato a regola d’arte, insomma. Le conseguenze furono quelle che furono, inevitabili, tragiche: l’uovo, che non aveva una corazza di dieci centimetri e nemmeno di cinque, non agguantò il colpo e venne perforato dal mocassino, Sigarino ci entrò dentro fino allo stinco. Quando Sigarino fece per estrarre il piede, la catastrofe vera e propria: l’uovo collassò su se stesso.
A nulla valsero i commoventi tentativi degli ospiti di sorreggerlo con le mani: il cellophane era ormai bello e che afflosciato, con il 70/80% dei cocci di cioccolata adagiati mestamente sul fondo. Sua moglie Anna, solitamente (lei sì) soft e british, la prese maluccio e cominciò a redarguirlo di brutto: «Francooooo!».
Lui rispose per le rime, vi lascio immaginare. Un casino.
Terzo episodio.
A maggio del 1998, in occasione della finale di Champions League, col Club Juve Isola d’Elba eravamo alla Linguella per vedere la partita sul maxischermo. L’ingresso era ad offerta (obbligatoria) ed alla cassa eravamo io e — buonanima — Carlino Orsi.
Il taglio standard dell’offerta era di cinquemila lire e, se qualcuno ci allungava qualche pezzo più grosso, gli facevamo puntualmente il resto. Sigarino arrivò, da solo, una mezz’oretta abbondante prima del calcio d’inizio, sganciò una banconota da centomila e tirò di lungo, proseguendo verso le panche come se nulla fosse.
«Aspetta» gli fece Carlino «che ti si fa’ il resto».
«’Un importa» ci freddò lui «va bene così».
Dopo cinque minuti si presentò Camilla (sua figlia) con un’amica. Io e Carlino ci guardammo e ci mettemmo a ridere, dopo di che Carlino disse loro, con fare serio ed autoritario, accompagnando con un cenno con la mano: «andate, andate».
«Perché?» domandò Camilla col portafoglio già in mano, pronta a fare anche lei l’offerta.
«Ha già pagato il tu’ babbo».
Centomila erano centomila.
La canzone, si diceva.
Eravamo sovente seduti fuori ai tavolini del bar a giocare a carte: bazzica, scopa, tressette e briscola oppure, se proprio in tanti, vinciperdi o briscola chiamata e a volte (spesso) venivamo massacrati senza motivo.
Accadeva di norma nel tardo pomeriggio, quando il bar andava praticamente svuotandosi. Non è che Sigarino volesse massacrarci, per carità, voleva soltanto assecondare una sua improcrastinabile voglia, ma purtroppo le due cose combaciavano alla perfezione. Per andare sul sicuro, a volte, simulava pure un guasto, cioè staccava (di nascosto) la spina del mastodontico juke-box situato all’ingresso, in maniera tale che la sequenza di canzoni fin lì programmata andasse volatilizzata, perduta.
Non poteva mica aspettare che finissero “Nothing Compares 2 U” di Sinead O’Connor, “Why” di Annie Lennox o “Losing my Religion” dei Rem, certo che no. La sua voglia era, come detto, ora e subito. Quando poi, miracolosamente, il guasto veniva riparato (riaggancio di spina, sempre di nascosto), Sigarino faceva passare qualche secondo strategico prima di avvicinarsi con passo felpato verso il juke-box, lato fronte, con aria indifferente e mani rigorosamente in tasca, dentro cui si percepiva il tintinnio di una manciata di monetine, come ad oscuro presagio di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
Apriamo una parentesi: Sigarino era solito tenere le mani in tasca, così, per vezzo; e magari, all’occorrenza, per fare i più disparati scongiuri. Fatto sta che, giunto a destinazione, veniva apostrofato all’unisono: «Nooooo! Sigaro! Per favore!».
Macchè.
La sua risposta era un sorrisino beffardo e poi, spietato come un boia, dava inizio alla mattanza, mettendo su C4, sempre e solo C4.
“Tanta voglia di lei” dei Pooh, vai a sapere il perché.
C4, C4 e ancora C4, per quante monetine aveva in tasca. Se andava bene era per tre/quattro volte consecutive, sennò erano dolori, il conteggio poteva oltrepassare tranquillamente la decina.
Qualche kamikaze, tra noi, avrebbe addirittura gradito, giusto per cambiare, il trottolino amoroso… Le cose erano due. O rimanevi lì e te la sorbivi all’infinito — e guai a staccare la spina del juke-box: lui poteva, noi no — oppure levavi le tende.
E’ logico che la seconda alternativa era la più gettonata.
E così ci alzavamo, a debita distanza gli facevamo ciao ciao con la manina e talvolta accompagnavamo Dodi Battaglia nel ritornello: «Mi dispiace devo andareeee». Andrà tutto bene, sconfiggeremo questo maledetto virus prima o poi, un bel giorno usciremo da questo incubo assurdo e, non appena sarà cessato questo coprifuoco surreale e finalmente si potrà tornare alla normalità, farò un salto al cimitero.
Oltre ai miei cari, andrò a trovare anche lui, sicuro.
Gli volevo bene e un po’ mi manca.
Cosa direbbe Sigarino su quest’emergenza Coronavirus?
Elementare, che più elementare non si può: «Statevene a casa, demeeentiii!!!»
Michele Melis