La Pasqua non vuole mezze misure. Non esiste una sua versione “parzialmente scemata”, ischeletrita. Va vissuta per intero.
E il passato, in un modo o nell’altro, ce lo insegna.
Sì. In una domenica affatto anonima, le parole di quella zia custode ďun secolo riecheggiano ancora tra il vago e il nitido, laggiù, nell’epicentro della memoria. Tra l’astratto e il concreto. Tra il certo e il dubbio. Lontani ricordi che s’affidavano ad un italiano mezzo “sgarruppato”, fermo ad una seconda elementare e all’amore di suor Margherita, fan di nuovo eco. Fremono.
Scampata a due guerre e alla terribile “spagnola”, Lina continuava a guardar cieca, dalla sua finestra sul mondo, lo scorrere del tempo. E ci s’incazzava, a suo modo, per poi riscoprirlo sincero, puro nelle immagini di gioventù.
L’essenziale per colazione, pranzo e cena.
L’essenziale spalmato su pane raffermo (del forno alla Guardiola) a mo’ di burro.《E chi ľha mai visto il burro?》
L’essenziale spizzicato su quella brodaglia scolorita di cicerchie, bevuto assieme ad un vino campagnolo solo nei giorni di festa. Come oggi.
Prima Le Palme, poi il Giovedì e Venerdì Santo: una sorta di dramma affidato al gran corteo della tradizione, allo sconforto e al piacere nella speranza (speranza futura).
Le campane, per due giorni, non avrebbero suonato; le campane (“legate”) non l’avrebbero svegliata di buon ora per renderla curva nei campi, con la su’ mamma, a sputar fatica. Digiuno! Sì, digiuno; e anche se fino a ieri di banchetti luculliani, in quella casa, non se n’erano mai visti, il Venerdì peggio che mai. Alle sette — ma, ci giurerei, non in punto — uno stormo di ragazzetti avrebbe preso a girare per le vie e pe’ i “caranchioni” del paese. E con “regole” sonanti giù a gridar:《Donne legarevi il codino che sona il primo del mattino!》La sveglia — a km 0 — ha parlato, surclassando il lavoro del sacrestano (per due giorni a riposo). Il pomeriggio, scialbo, a seconda del sole. La sera — ieratica, lunghissima — la processione del “Cristo Morto”; seguiva il rito un’Addolorata di mano settecentesca piagata da un luttuoso tulle nero.
Il sabato ancora silenzio. Fino a mezzogiorno, quando il “plenum” del campanile avrebbe richiamato il popolo in festa per una Pasqua celebrata con dodici ore d’anticipo.
La domenica, invece, una scrosciante benedizione a sportelle d’ogni risma (pendenti al collo dei bimbi). Poi il pranzo, in una tavola in cui era versato tutto ľamore che una famiglia potesse dare.
Ce lo ricordava sempre. Sicura, in cuor suo, d’avvertire ancora il profumo del dolce pasquale, la sua fragranza, il suo connubio erotico tra uova, latte e farina. Ottant’anni fa.
Contare i giorni diventa un’arte, una fatica, un esercizio indispensabile per affrontare la vita. Loro che ľhanno affrontata davvero ce lo dicon più forte di ieri: la primavera che abbiamo sulla bocca (e negl’occhi) arriverà. Nessuna retorica, solo speranza. La Pasqua no, non s’arresta.
Fabrizio Grazioso