A volte tra gli “adulti” si tende a far passare il messaggio che i ragazzi non siano interessati alle problematiche che ci circondano, quasi come fossero esseri non più pensanti, omologati a un distacco quasi provocatorio dal nostro stereotipo quotidiano. In casa si esprimono poco e male, usano i social in maniera diversa, le loro emozioni sono più interiorizzate (per fortuna) che spot da pubblicare su Facebook e i sentimenti te li donano con parsimonia, si fidano poco dei grandi e i loro pensieri?
Li custodiscono, prima che “sono ragazzi ma che vuoi che ne sappiano”, in un paese per vecchi è la norma.
Ma per fortuna escono, in canali a loro congeniali o nell’unico contesto istituzionale che ancora non si arrende, resiste come un baluardo a difesa del futuro, la scuola.
Proprio dalla scuola prendiamo questa bellissima riflessione di Marta Tagliaferro (IV liceo scientifico), dal titolo “Una farfalla dalle ali bagnate”, che affronta il tema del femminicidio.
Una farfalla con le ali bagnate
Siamo nel 2024 e ancora una ragazza ha paura di tornare a casa da sola; siamo nel 2024 e ancora una donna si reputa in una posizione accettabile se subordinata al proprio compagno. Siamo nel 2024 e ancora una ragazza si sente in difetto se vestita con una gonna corta o uno scollo più pronunciato. Siamo nel 2024, gli anni sono trascorsi, le generazioni si sono evolute, le mentalità cambiate, eppure sono rimaste sempre ferme su un punto: l’inferiorità della donna. Il maschilismo è uno degli aspetti più bui e dannosi della società, si nasconde in silenzio dietro ogni gesto quotidiano. Scandisce un mondo in cui l’uomo è l’uomo, con i propri diritti, i propri poteri, e la donna è la donna, con i propri doveri e le proprie condizioni. Conduce alla paura, all’ingiustizia, al sopruso, alla violenza, alla cattiveria.
Nel corso dei secoli le menti umane sono state in grado di fare scoperte eccezionali, di una complessità ampissima, che hanno permesso al mondo e all’umanità di evolversi. Menti eccelse che hanno raggiunto traguardi impensabili prima. Ma se in ogni campo grazie a queste menti capaci e fenomenali, siamo riusciti a imparare e progredire, nel caso del maschilismo il tempo sembra scorrere a rilento, ignorando tutto ciò che da sempre subiscono le donne. Da questo discorso sembrerebbe che la condizione della donna sia sempre rimasta la stessa, senza mai migliorare, ma non è ciò che intendo: la posizione della donna è avanzata sì, ma si trova ancora lungo la scala, certo su uno scalino più alto dello scorso secolo, ma ancora sulla scalinata e sui gradini inferiori a quelli occupati dagli uomini.
Spesso sento dire che ci dovremmo accontentare, che dovremmo apprezzare i traguardi raggiunti e riconoscerne il prestigio, ma non si riesce a capire che ciò che le donne meritano non è solo uno scalino in più, ma l’intera scala. Non ci possiamo accontentare se sono state inserite leggi tutelanti ma continuano a morire donne uccise dalle persone che dicevano loro di amarle, non ci possiamo accontentare se una donna riceve un posto di lavoro, ma viene pagata meno dell’uomo; non ci possiamo accontentare se una donna non deve necessariamente sposarsi, ma viene considerata meno senza marito. Non possiamo accontentarci del buio abituando gli occhi all’oscurità, bisogna continuare ad immaginare la luce per poterne poi reggerne l’impatto. Le donne hanno alzato le loro voci, hanno fatto capire che vogliono vivere come gli spetta. Hanno comunicato con ogni mezzo difendendo i loro diritti e sostenendo quelle che secondo loro sono le giuste soluzioni.
Nel 2015 il Corriere della sera ha pubblicato una riflessione della scrittrice Dacia Maraini intitolata: “Solo la scuola può salvarci dagli orribili femminicidi”. Già dal titolo possiamo intuire che quello che desidera fare Maraini è trovare una soluzione, che lei identifica nella scuola, nella rieducazione basata sulla demolizione della visione della donna come una proprietà soggetta a una criminale schiavitù. “Troppi uomini sono ancora prigionieri dell’idea che l’amore giustifichi il possesso della persona amata […]. Ogni manifestazione di autonomia viene vista come un’offesa che va punita con il sangue” scrive l’autrice, evidenziando come la donna sia destinata ad una sofferenza dovuta all’impossibilità di essere libera. L’autonomia della donna viene vista come un campanello d’allarme che va spento in un modo o nell’altro.
Nell’articolo la scrittrice riporta anche un esempio di femminicidio, la storia di una delle tante, o meglio troppe, donne a cui è stata spezzata la vita da un uomo spietato e figlio di un mondo maschilista, in cui la donna, da sola, non deve non può rimanere. Loredana Colucci venne uccisa dal marito davanti alla figlia adolescente, dopo denunce, altre precedenti violenze e soprattutto provvedimenti, dimostrati inutili, da parte dello Stato, che sembra come essere cieco davanti all’evidenza di un problema. Uccisa. E con lei anche una parte della figlia, rimasta senza madre e con un padre omicida, colpevole di tutto. Ma davanti alla paura, al fallimento della società, alla violenza, come si fa a rimanere indifferenti? A non capire che un problema c’è e soprattutto che questo debba essere risolto quando ancora non è troppo tardi, perché intanto un’altra donna è già finita nelle mani crudeli del proprio aguzzino?
Siamo nel 2024 e la situazione in Italia è la stessa, se non peggiore, di quella raccontata nel testo di Dacia Maraini. Le donne, le ragazze a morire e a pagare per colpe non commesse sono ancora troppe. A ottobre risale il femminicidio di Giulia Cecchettin, un caso che ha avuto particolare risonanza in Italia in quanto inaspettato e improvviso. Giulia era una ragazza tranquilla, che conduceva una vita che definiremmo “normale”, ma che a soli ventidue anni è giunta al termine. La decisione che quello dovesse essere il suo ultimo giorno è stata di Filippo, il ragazzo con cui Giulia, dopo esserci stata fidanzata, non stava più bene e che quindi aveva lasciato. Filippo non riusciva ad accettarlo, non poteva credere che lei volesse condurre una vita senza di lui e così, senza aver mai creato sospetti né di Giulia, né delle persone che avevano attorno, l’ha accoltellata e lasciata morire in un modo crudele e spiazzante. L’ha amata e l’ha uccisa. Le confidava quanto fosse importante per lui e l’ha uccisa. Le diceva che era la sua vita, che viveva per lei e, alla fine, l’ha uccisa. Questo non è amore, non è la persona che ti ama a renderti il suo oggetto, non è colui che ti sta accanto a decidere che tu non debba più vivere, o uscire, o vestirti come vuoi, o parlare con qualcuno, o avere dei momenti per te, o vivere come credi sia meglio. Si tende ad aprire gli occhi solo quando il fatto è talmente rilevante che non farlo sarebbe inumano, ma non diamo abbastanza importanza a quelli che sono i campanelli di allarme, i quali, se riconosciuti in tempo, possono evitare che si arrivi al culmine, quando non c’è più niente da fare.
Giulia non è solo vittima dell’ennesimo femminicidio, Giulia è vittima di un mondo che emargina la donna, che la rende un qualcosa da possedere e mantenere succube, che rende gli uomini liberi di toglierle la libertà. Viviamo in un mondo che fa paura, per molti aspetti, i peggiori dei quali si ricollegano tutti alla violenza per abuso di potere, per la volontà di primeggiare, perché ci si sente nella posizione di poter schiacciare qualcun altro, non riconoscendolo come uguale a noi, con gli stessi diritti, con le stesse libertà, nello stesso mondo. Spaventa pensare che Giulia sarei potuta essere io, o qualunque di noi. Spaventa pensare di vivere in un mondo in cui alla fine sei solo un oggetto. Una farfalla a cui sono state bagnate le ali per impedirle di volare, che senza raggi del sole, in una giornata di pioggia, muore.
Siamo nel 2024 e vorrei che si iniziasse a vedere quella luce, quello spiraglio di speranza, in una società in cui spesso le speranze vengono disinnescate dal male che instancabile si ripresenta. Bisogna fare rumore, perché siamo state in silenzio troppo tempo. Bisogna fare rumore, perché nessuna donna si deve sentire sola in una strada senza macchine o amiche intorno, in una casa con le impronte di sangue sui muri, con le crepe per le urla, in una macchina che percorre una strada sconosciuta, con una meta indefinita. Bisogna fare rumore perché non c’è più tempo per il silenzio. Per tutte le donne uccise, picchiate, stuprate, violentate, umiliate, derise, giudicate, maltrattate, sfruttate, schiavizzate, bisogna fare rumore.
Marta Tagliaferro IV B liceo scientifico.